Iris
Iris è una di quelle donne che si fanno notare poco. Il che, per un’attrice, è una cosa piuttosto insolita. Iris veste sempre di nero, alternando, d’estate, ballerine, pantaloni alla capri e leggeri cardigan - che ha sempre un po’ freddo e l’umido delle notti estive è nemico delle sue ossa doloranti- a stivali e colli altri d’inverno, che fanno risaltare ancora di più gli spessi capelli biondi che la incorniciano.
E’ una di quelle donne che non si notano al primo colpo, perché non fa mai la sua entrée da sola, ma sempre dietro a qualche membro della sua famiglia, che sia la vecchia madre che ogni tanto rimette in careggiata in un mese di ospitalità fatta di dieta e tagli di capelli, o uno dei figli che la trattano da mamma o da amica o seconda dei momenti con perfetta intercambiabilità, o il sempre presente e salace marito. Arriva trafelata perché ha preparato all’ultimo momento qualcosa, di ritorno dal lavoro che la sfianca ma che la vede insostituibile angelo custode di un’esistenza complicata. Non si perde in discorsi e poggia un vassoio nell’angolo del tavolo già stracolmo di ogni ben di Dio nei consueti ritrovi in stile “porto party”: non sta a dire nemmeno cosa c’è, che va mangiato caldo, o che è buono o che so io. Lo mette lì e parte il giro dei saluti.
Quando la abbracci, e i suoi abbracci sono veri, non di cortesia, le senti le costole fuori dalla pelle magra, a volte perfino il dolore alla schiena si può sentire durante un abbraccio.
Iris è la tata di tutti i bimbi del gruppo: è quella che prende in braccio il neonato che la madre credeva addormentato quando si è messa a cantare, che sulla spiaggia regala un bagno ai genitori raccogliendo conchiglie con una fila di cuccioli dai tre ai nove anni, che con un saltello e una voce strana fa passare le coliche, le bizze e convince a mangiare la zuppa di cavolo.
Sembra che si ricordi che è un’attrice solo quando la sua acuta risata da strega serve a strappare un sorriso a mia figlia, che a stento ha accettato che Iris e la strega vestita di nero o la acida donna Capuleti madre di Giulietta siano la stessa persona. Magia del teatro.
Anche la sua cucina è così, arriva in sordina. Non si cimenta in antipasti, raramente ammannisce primi, se lo fa è l’esecutrice di portate il cui merito attribuisce ad altri (chissà quante lasagne di nonna sono uscite dalle sue mani, mi pare di vederla mentre si scotta le dita a tirar fuori dalla pentola i fogli di pasta ancora bollenti e sistema tutto nel tempo che la vecchia madre mette uno strato di besciamella). Iris è quella dei dolci. E non sono dolci a caso. Sono dolci che ruotano sempre intorno alla stella polare della cioccolata. La sua crostata ha quella pasta frolla quasi sbrisolona che si frantuma mentre la tagli, e che arriva intatta alla bocca solo grazie al collante di nutella steso in dosi massicce, ma, evidentemente, necessarie. La cioccolata, si sa, contiene serotonina, la cioccolata rende felici, aumenta le endorfine, è una scossa al cervelletto che allieta le esistenze di tutti noi variamente depressi. Per questo i dolci di Iris vanno sempre a ruba. Per questo vengono tagliati in fettine sottilissime, perché non si darà mai il caso che qualcuno dica “no grazie”. Forse è per questo che si è specializzata in finger cakes, come li chiamerebbe un pallosissimo cuoco stellato. Per lei sono solo bocconcini da far girare. Le palline di cioccolata (impasto del salame di cioccolata e biscotti, ma fatte a bon bon, monodose e cosparse di cacao amaro) rasentano l’istigazione alla perversione, ma quelli secondo me più rappresentativi di Iris sono i panini alla nutella e cocco. La preparazione è banale: due pavesini, uniti da una crema di mascarpone e nutella, tuffati nel latte e rivoltati nella polvere di cocco. Non ci vuole nulla se non gli ingredienti e sveltezza.
Gli ingredienti? Le dosi?
“Iris, ma quanta nutella e quanto mascarpone?”
“Ma, vedi tu, dipende da come ti piacciono”.
In effetti il mascarpone ci va, in proporzioni di circa 50 e 50, o anche 60 a 40 in favore del mascarpone, direi io con la mia mente da piccolo chimico: la nutella sembra risucchiare il formaggio bianco mentre diventa una crema deliziosamente mulatta, un po’ più granulosa e meno filante. Se si eccede con la nutella i dolcetti sono stucchevoli, visto che poi c’è anche il dolce del cocco. Ma, per essere fedeli a Iris, bisogna seguire il proprio istinto. È sconsigliabile prepararli con qualcuno accanto, perché il rischio è di non arrivare alla fine se non con miseri resti: la piccola dimensione dei dolcetti invoglia a mangiarli senza tenere il conto. Una donna chic li fa fuori in due bocconi, un uomo o una donna da sola, con lo sportello del frigo aperto mentre fa colazione prima che il resto della famiglia si svegli, li fanno fuori tranquillamente in un boccone solo.
Il bello di Iris è che si stupisce. Si stupisce che i suoi dolci vadano a ruba. I suoi dolci arrivano quando la serata si è rilassata, quando le pance sono piene, la voracità ormai è placata; i bimbi ormai giocano liberi e le mamme smettono di insistere, facendo il conto di fette di prosciutto, pecorini a tocchetti, quadretti di frittata e spilluzzichi di pasta hanno stabilito che proteine e carboidrati necessari alla sopravvivenza sono stati raggiunti anche nell’eccentrico mix della serata (“al massimo domani avrà il sedere un po’ rosso”). I grandi si concedono una sigaretta in terrazza o in giardino, mentre si sgomberano i tavoli, si compongono gli avanzi in piatti variegati da portare via col ricordo di un po’ di tutto. A quel punto arrivano i dolci, e, ci fosse anche Artusi in persona, i dolci di Iris sono sempre i primi a finire. E lei è felice, gli occhi enormi e verdi si spalancano e poi si socchiudono in una soddisfazione da gatta, ma senza malizia, mentre dice, sempre “Ma figurati, li ho fatti così di rincorsa…”. Mi ha sempre fatto ridere che ci sia sempre qualcuno che chiede da quale portento siano usciti i dolcetti al cocco. È vero che nelle cene della compagnia c’è sempre qualche outsider di passaggio, ma la domanda esce anche dai veterani, forse proprio perché Iris si cela, rimane nell’ombra, i suoi meriti hanno la durata di un attimo, come quando l’occhio di bue in teatro è solo per lei. Dura sempre poco.
Poco rispetto a quanto lavoro c’è dietro a quel monologo di venti minuti, arrivato dopo aver lavorato, aver stirato per tutti, aver fatto la spesa per tre case diverse, aver sopportato le esigenze di una famiglia complicata e aver allo stesso tempo con tenacia messo piccoli fossati a tutela della sua famiglia normale.
Iris è una grande attrice dalla piccola voce, che si sente poco a teatro e che invece esce con una libertà potentissima quando canta, da Mina a Patty Pravo (la mia preferita tra le sue esibizioni). A teatro sceglie (le scelgono?) ruoli da donna spaurita, forse perché si attagliano bene alle sue spalle magre e un po’ curve, al suo sguardo che vaga a scatti oltre il pubblico. Se recita una donna forte è solo perché tutto si volge in farsa. Quando riceve lunghi applausi per un ruolo nuovo, un testo lungo e uscito dal sogno delirante di un mago portoghese, si gira intorno come a dire “chi io?”. Incredula. Sempre incredula. Come quando si sente dire che i suoi dolcini sono fantastici. “Mah, figurati, sono sempre i soliti…”. Appunto, lei è sempre la solita, e non crede di essere da applauso. Poi la luce si spegne, o passa su un’altra attrice. E Iris si è già struccata, raccoglie gli abiti di scena di tutti, che poi, lavati, ridistribuisce a fratelli e nipoti che avevano lasciato in giro camicie e cappelli.
I dolcetti sono finiti, ora c’è un ottimo tiramisù. E prima che tu abbia capito come, Iris ha già quasi finito di fare i piatti, in qualsiasi casa: ha trovato il sapone, gli strofinacci per asciugare, ha capito cosa è dei padroni di casa e cosa viene da fuori. Le dici “Ma Iris non c’era bisogno…”. “Figurati, ci vuole un attimo…”. E invece non è vero che ci vuole un attimo. Per essere così ci vuole tutta la vita.