Giuliana


Un classico. I pomodori ripieni di riso sono un classico. Espressione che sul momento la faceva ridere, sonoramente.

Che i pomodori ripieni di riso di mia nonna Giuliana sono un classico vuol dire sostanzialmente che, da brava nonna, dopo una volta che li abbiamo apprezzati, ce li ha propinati in infinite occasioni. Quando i miei genitori mi portavano a trovare i nonni fiorentini, prima per a volte svogliati doveri domenicali, poi per più impellenti necessità, uno dei giochi per far passare il viaggio in auto (un'ora poco più, ma che per me era un supplizio) era il così detto "Totomenu": cosa avrà fatto nonna? Puntare sui pomodori ripieni, stagione permettendo, era scommessa sicura, ma di poca soddisfazione.

Mia nonna cucinava dei pomodori ripieni particolarmente buoni. La ricetta è semplice, ma la giusta quantità di sughetto che resta sul fondo della teglia, il punto di cottura del riso, il gusto saporito e deliziosamente tendente un po' al salato, erano una combinazione soltanto sua.

Servono pomodori grandi, tondeggianti, maturi ma non troppo, altrimenti si rompono, ma neppure verdi, altrimenti la cottura ne esalterà il sapore ancora acidulo. Forse la ricetta, ben prima della mia nascita, ha trovato fortuna grazie ai pomodori coltivati nell'orto di mio nonno, un fazzoletto di terra ricavato accanto al distributore di benzina che lui gestì per anni, spazzato dal libeccio che aveva davanti come unico panorama. Un pezzetto di terra che doveva essere microscopico, se adesso guardo il piazzale asfaltato che c'è stato ricavato, ma che per me era un mondo enorme, chiuso dal pitosforo, dotato di altalena personale in metallo, con tanto di fragole ("per la bimba"), e meravigliosa zona pericolosa, quella dalla quale si accedeva ai binari della ferrovia che correva dietro. In quel pezzettino di terra tutto cresceva alla velocità della luce: le fave – "bah, le son troppo piccine"- che mia nonna non coglieva la sera, la mattina dopo erano baccelli buoni per la zuppa ma già troppo grandi e amari per esser mangiati crudi, come noccioline, senza nemmeno condirli col sale. Il sale invece era l'ultimo problema, perché il salmastro del mare dall'altra parte della strada era dovunque, nelle ossa, nelle verdure, come nei muri sempre scrostati e umidicci, nelle lenzuola che restavano dure e inteccherite dopo esser state ad asciugare fuori.

Forse uno dei motivi per cui mia nonna ha sempre adorato quella casa di fronte al mare ad Antignano dipende anche dal sale, dallo iodio che si è ingoiata per anni, dal vedere mio padre - bimbetto mefistofelico con lentiggini da Gian Burrasca- chiederle per la prima volta merenda a metà pomeriggio, dopo il trasferimento della famiglia nel 1956. Poter stare al sole, cosa che mia nonna ha sempre cercato come una lucertola, anche da vecchia, quando non era più l'ideale per le sue gambe. Il vento di mare che le entrava in casa e in testa (col mare agitato gli spruzzi davvero arrivavano sui vetri di casa), e che rendeva più normale, forse, essere scontrosi, o ridanciani, o, come minimo, spettinati e un po' all'arrembaggio.

Ripensandoci ora, quella casa - chiusa tra la ferrovia coi diretti per Roma e una strada trafficatissima sul davanti, cavata alla meno peggio sul retro degli uffici di un distributore di benzina, con la vasca nella tinozza, una cucina microscopica e un letto di fortuna per mio padre - doveva essere terribile. Eppure capisco mia nonna che la ricordava come il paradiso della sua vita, ancora con un nodo alla gola, mai rassegnata alla decisione di suo marito di tornare a Firenze al momento della pensione, quando ormai lì sul mare non c'era solo la casa, ma anche, definitivamente, il figlio, la nuora, la nipote.

Era giovane quando arrivò al distributore sul mare, coi suoi capelli già bianchi su un lato (esibiti quasi come un vezzo, e poi tingersi usava poco): forse il paradiso della sua vita stava in quello. Forse, tornata a Firenze in una bella casa, ha visto solo il logorante susseguirsi di peggioramenti nella malattia di mio nonno, senza le amiche con cui stare al sole con le maniche del maglione tirate su anche in dicembre, senza quei pomodori così saporiti di suo.

I pomodori, insomma, vanno tagliati sotto il picciolo, circa a tre quarti dell'altezza, in modo da fare un comodo tappo con cui richiuderli. Vanno svuotati conservando la polpa, ma togliendo i semi ("ah, ma quelli dell'orto i semi non ce l'avevano nemmeno, l'eran tutti boni"). Poi si salano appena e si mettono a scolare a testa in giù: il sale fa uscire il liquido in eccesso. Nel frattempo mia nonna passava la polpa col passino, quello che ora non si usa più e che, nella atroce cerimonia di svuotare la casa di chi è morto, ho voluto per me: una metà gira sopra un disco di buchini, che si poteva alternare con altri dischetti concepiti per altri scopi (a fori un po' più larghi per le altrettanto mitiche, benché immancabilmente brignoccolose, patate "mascé"). Il sugo liquido viene raccolto in una ciotola, formando qualche bollicina schiumosa in superficie. Qui si metteva il riso, crudo: un pugno pieno per pomodoro, e un po' di più non si sa mai.

Anche se negli ultimi anni l'ho vista cucinare poco, vedo ancora le mani di mia nonna, con la pelle sempre screpolata, le unghie squadrate e quasi maschili di una che le ha sempre mangiate e che ha smesso da grande, quando era troppo tardi, e l'unghia del pollice spaccata a metà, dopo che da ragazza lavorando se la chiuse in una cucitrice da pelletteria. Una mano con un pugnetto di riso che va avanti e indietro e che pensa e ripensa tre volte se aprirsi sul contenitore del succo di pomodoro o se farsi beccuccio per rimettere il riso nella scatola.

Mia nonna era una cuoca indecisa. Sulle quantità, per esempio: sempre in bilico tra stare attenta a non buttar via e paura di far restar gli ospiti, non certo con la fame, ma con la voglia del secondo giro.

Credo che capiti a tutti quelli che fame l'hanno avuta, in tempo di guerra magari: e lei è cresciuta con altri tre fratelli, una madre vedova, tante bietole, le patate rubate nel campo (la mia bisnonna però si confessava: a giorni alterni, perché confessava sia il furto del giorno prima sia quello imminente della sera stessa). Una fame terribile e il senso di colpa di aver più fame del fratello maschio.

Mentre il riso assorbe il sugo di pomodoro, e si dilata e ammorbidisce, rendendo possibile la giusta cottura in forno senza far bruciare i pomodori, lei tagliava qualcosa di saporito, avanzi di prosciutto, quello toscano e salato, carnesecca, cosa c'era. Grattava un po' di parmigiano, magari la crosta vicino alla fine, quella che esce dalla grattugia in riccioli finissimi e che sulla pasta non sta bene ma che dà tanto sapore. Nelle cose ripiene, non si butta via nulla. Si finiscono i salumi incartati nei fogli di carta oleata.

Mia nonna cucinava bene: un po' perché le piaceva mangiare, e, grazie a Dio, non c'era malattia o tristezza che le abbia impedito di farsi pranzo e cena, di apparecchiarsi e magari alla fine "e c'ho anche mangiato du' fette di pane colla marmellata, che mi c'andava, e poi mi son detta o che vecchia grulla tu sei". In secondo luogo perché ha vissuto tanto vicino a una suocera ex cuoca di trattoria (tra l'altro) che la fermava dal salare due volte l'acqua, senza nemmeno alzare la testa dalle parole crociate o dall'avida lettura di "Grand Hotel". Sua suocera, la nonna Pia, da ragazza aveva imparato a cucinare come domestica in una villa di "signorine francesi", che tante volte ho sentito rammentare nei racconti femminili attorno alla tavola. Tali signorine, che io mi immagino incartapecorite zitelle chic, abitavano in una delle molte ville di stranieri che circondano Firenze, e, con la parsimonia tipica dei ricchi, facevano imbandire le cene che la nobiltà obbligava con argenteria e sufflè, fatti riciclando formaggi al limite del mangiabile e basando su un uovo tutta una cena, o servendo e riservando lo stesso avanzo ogni volta sotto una salsa diversa. Credo derivi da questa discendenza francese la bravura di mia nonna per paste pasticciate (pasta, carnesecca e formaggio, affogati di besciamella e messi a croccare in forno fino a formare un timballo), le polpette e i polpettoni, le verdure ripiene: "un si butta via nulla".

Nei pomodori ripieni, per esempio, ci vuole un po' d'aglio a pezzettini, un po' di prezzemolo tagliuzzato, aggiunti al riso quando ha tirato il succo. Poi si riempiono i pomodori, fino all'orlo, anche un pochino di più ("tanto poi scende") e si aggiunge un fiocchino di burro. Ognuno va tappato col suo coperchio di pomodoro e vanno riposti in una teglia larga, di quelle di alluminio coi manici di lato, che, non so perché, diventano neri mentre il resto della teglia si lucida sempre più dopo gli anni d'uso. Se avanza un po' di succo di pomodoro si può aggiungere sul fondo, con l'olio. In forno per chi sa quanto (il mio più vivido ricordo dell'infornatura dei pomodori si collega a un forno di quelli che si accendevano da dentro col fiammifero). Di sicuro fino a che l'odore non pervadeva la casa, e all'epoca, si affacciava sul davanti del distributore, quasi a voler contrastare il profumo un po' esilarante della benzina.

 

Anche se i pomodori ripieni di riso erano tra i suoi cavalli di battaglia, non sarebbe farle onore dimenticare gli zucchini tondi ripieni, che, specialmente fino a qualche anno fa, si trovavano meglio a Firenze che sulla costa. O, soprattutto, la sua versione delle patate arrosto, tagliate grezzamente a fiammiferi irregolari, di conseguenza croccanti o morbide in modo variabile, che ricordo mangiate direttamente una ad una da una busta di carta da pane, usata a mò di cartoccio in attesa di essere portate in tavola (dove non arrivarono, almeno quella volta). Ma ad essere sincera i piatti migliori di mia nonna mi sembrano quelli del tutto estemporanei, fatti al mio arrivo da treni in ritardo, o da biblioteche serali, anche in compagnia di ospiti improvvisati. Perché da mia nonna qualcosa di cucinato c'era sempre, oppure si poteva fare, fosse anche pasta al burro. In pochi minuti, dai piani bassi dove abitano le sorelle, saltava fuori una mezza insalata, il pomodoro rimandato al giorno dopo, un po' di formaggio, e prima della fine, si trovava anche un gelato o quantomeno un po' di cioccolata. La cosa che mi più stuzzicava l'appetito era proprio questo improvvisare menu sconclusionati, basati sul "vediamo cosa c'è", e sulla prontezza nel prendere la tovaglia educatamente ma un po' tristemente piegata a metà su un'estremità della tavola e stenderla per intero. Lo spignattare alla meno peggio il cibo per me, mentre finiva di mangiare la frittata che si era fatta e che non mi proponeva, benché fosse la pietanza che mi invogliava di più.

Mia nonna era una donna che si perdeva a volte in un bicchier d'acqua: se doveva parlare con un medico, o se l'assaliva qualche ricordo triste, o se qualcuna delle sue abitudini cozzava contro una novità. Certi periodi della sua vita l'hanno resa fragile, o al contrario secca e semplificatoria, come spesso capita a chi non ha più tante energie per perdersi dietro ai dettagli. E la vecchiaia non aveva solo incurvato la sua schiena, ma anche reso lo sguardo un po' più mobile, e più tremule le mani. Eppure non l'ho mai vista perdersi nella sua cucina, né intimidirsi, o vergognarsi di farsi trovare in calzettoni e vestaglia da miei amici o fidanzati, o di affacciarsi alla porta con i capelli azzurri da fata turchina fermati da un becco d'oca. Si guardava intorno, chiamava le sorelle a raccolta, e si organizzava spartanamente. Poi faceva una risata alta, mostrando la bella corona di denti, e io non so perché penso sempre alla copertina verde delle “Ragazze di San Frediano" di Pratolini. Con grande naturalezza tirava fuori cosa c'era, così felice della visita improvvisata da non pensare a chi sa quali abitudini alimentari potessi essere avvezza io o i miei amici.

Il bello è che in quei momenti non ci pensavo minimamente nemmeno io.