Florence e l'orco dietro al mulino
particolare dalla tavola II di gabriella Cavaliere per Le favole favolose
questa fiaba nasce dal ricordo di un meraviglioso viaggio in Francia, tra Loira e Bretagna.
quando ancora le bimbe avevano quell'età fra 7 e 4 anni in cui basta evitare troppi musei e comprare ogni tanto una baguette da mettere sotto il braccio per vivere senza mugugni.
in ogni modo, il ricordo è perfetto per idealizzare.
Florence abita davvero ad Amboise. ed è una delle ospiti più memorabili della nostra piccola vita di viaggiatori.
Florence e l’orco del bosco dietro al mulino
C’era una volta in un paese non tanto lontano un grande castello, pieno di torri alte fino alle nuvole e appuntite come coni gelato a testa in giù. Si diceva che nel castello vivesse un famosissimo e potentissimo mago, che era anche pittore, musico e scienziato, strambo e musone, ma così strambo e così musone che quasi sarebbe venuto da prenderlo in giro. Ma il mago era così potente nella scienza delle piante e così abile nel costruire macchine segrete da guerra e da pace che nessuno si sognava di prenderlo in giro, nemmeno il vecchio re e la giovane regina che, al contrario, gli concedevano denari per ognuna delle sue stramberie.
Sotto al castello c’era un piccolo villaggio, pieno di voci e di profumo di biscotti al burro, così buoni che richiamavano gente da tutte le campagne vicine. Ma i biscotti erano così buoni perché vicino al villaggio, poco al di là di un grande fiume tranquillo d’estate e impetuoso d’inverno, c’era un piccolo mulino, che macinava la farina più buona del regno.
Il mugnaio aveva così tanta richiesta di farina che lavorava a più non posso, e assieme a lui lavoravano anche i suoi sei figli maschi, tutti biondi, riccioluti e cicciotteli come la loro mamma. I più grandi, ormai quasi uomini, facevano i lavori più faticosi con il padre, come spostare i sacchi di farina e caricarli sui carri per il mercato, mentre i tre più piccoli spazzavano e pulivano, ricucivano i sacchi di tela, fino a che, a suon di pagnotte spalmate di burro, non diventavano abbastanza forti per aiutare i maggiori. La mamma lavava e stendeva panni sempre sporchi di bianco, cucinava zuppe e crespelle, coltivava un piccolo orto e teneva in ordine un grande libro di conti, dove scriveva tutte le vendite di farina. Aveva così tanto da fare anche lei che le restava poco tempo da dedicare all’unica figlia femmina, la minore di tutti, di nome Florence.
Florence era secca come uno spillo, come il suo papà, con le ginocchia che sporgevano dal vestito che la mamma le aveva cucito in stoffa bianca, sperando che si confondesse meglio con la polvere di farina che volteggiava intorno al mulino. Aveva folti capelli riccioluti che le crescevano veloci come l’erba e che la mamma tutte le mattine legava in due spesse code, con due nastri colorati, dicendole sempre:
“Florence, figlia mia, attenta a non perdere i nastri, perché sono l’unico regalo che può farti tua mamma per abbellire il tuo abitino bianco”.
Infatti ogni volta che andava al mercato, la mamma comprava due nastri di un diverso colore e li portava in regalo alla figlia. Ma Florence correva tutto il giorno e le code sempre si disfacevano, i nastri sempre si scioglievano, e Florence li infilava nella tasca del suo abitino bianco, anche se ogni tanto ne perdeva qualcuno. La mamma faceva un sospiro, ma senza sgridare la bambina, pensando che la figlia era fin troppo brava a divertirsi da sola tutto il giorno.
Quando la mamma lavava i capelli a Florence nella fredda acqua del ruscello che faceva girare il mulino, cospargendoli poi di olio di mandorla per poter districare i nodi, le diceva sempre:
“Florence, figlia mia, tuo padre lavora come un mulo, i tuoi fratelli corrono come piccoli furetti, io giro per la casa come una trottola e abbiamo poco tempo per stare dietro a te. Ma tu sei sveglia e intelligente, e sai divertirti da sola. Puoi correre nel giardino e cogliere fiori del colore dei nastri che ti ho regalato, puoi bagnarti nello stagno e fare i biscotti di fango per le ranocchie, puoi girare per tutta la casa quando piove e nasconderti in capanne fatte di sgabelli e coperte, ma, mi raccomando, non andare mai nel bosco oltre il ruscello del mulino”.
“Perché non devo andarci, mamma?” chiedeva sempre Florence.
“Perché ci passano i cervi che portano le zecche e le pulci, che andrebbero subito nei tuoi folti capelli” rispondeva la mamma, e Florence stava buona.
Un giorno però, alla solita raccomandazione, Florence rispose:
“Cara mamma, pulci e zecche sono anche nella nostra stalla, addosso al nostro cane e ai nostri gatti, ma tu non dici mai nulla. Perché allora non devo andare nel bosco oltre il ruscello del mulino?”.
La mamma sospirò e capì che sua figlia stava diventando grande, e così le rispose:
“Florence, figlia mia, nel bosco si dice che abiti un orco, grande e grosso, che si esprime solo con urla e mugugni, che ha sempre fame e cerca di acchiappare chiunque si avvicini. I tuoi fratelli ne hanno visto le gambe pelose sotto i calzoni strappati, uno lo ha visto da dietro mentre scuoteva una quercia per grattarsi la schiena piena di zecche e pulci portate dai cervi, e, Laurent, il tuo fratello più piccolo, lo ha perfino visto in faccia, mentre si rifletteva nello stagno con uno sguardo cattivo e crudele. Se non ti fidi di me chiedi ai tuoi fratelli”.
Florence si fidava della mamma, ma chiese comunque ai suoi fratelli, che le raccontarono storie terribili sull’orco del bosco oltre il ruscello del mulino, facendola andare a dormire per tutte le sere d’inverno con brividi di paura oltre che con quelli di freddo. Ma Florence era una bambina allegra, e, appena entrava nel letto scaldato dal suo gatto preferito, si dimenticava dei brividi di freddo e dei brividi di paura, dell’orco e delle pulci.
Quando tornò la primavera Florence riprese a stare fuori tutta la giornata, ma per la prima volta, il bosco oltre il ruscello del mulino iniziò a sembrarle interessante e fantastico. Si bagnava i piedi nello stagno, e tornava a guardare il bosco; faceva i biscotti di fango per le ranocchie, e tornava a guardare il bosco; costruiva una treccia di violacciocche e si spingeva fino al punto in cui il ruscello era più stretto…
Un giorno d’estate, quando il ruscello lasciava scoperti alcuni massi, dopo aver preparato una zuppa di petali di girasole per le sue bambole, Florence pensò che non c’era nulla di male a fare un piccolo giro nel bosco.
“I cervi in questo periodo accudiscono i piccoli e non si spingono fino a dove stanno gli uomini e quindi niente pulci e zecche”, pensò.
Quanto all’orco… Magari erano tutte fandonie inventate dai suoi fratelli per prendere in giro la piccola di casa.
Era bello camminare nell’ombra del platani e dei tigli, sentire lo scricchiolio delle foglie seccate dal caldo, e toccare il muschio odoroso e soffice. Ma tutto a un tratto…
… Rimase come di sasso di fronte a una piccola grotta con massi di pietra che avevano un po’ la forma di una grande tartaruga. Vicino alla grotta cresceva un salice piangente che si specchiava in un piccolo stagno e… ai rami ondeggianti del salice erano appesi… Tutti i nastri che lei aveva perduto nel suo girovagare dei mesi passati!
Si avvicinò silenziosamente al salice e iniziò a toccare ognuno dei nastri: rosa pallido come i fiori di rosa canina, bianco come i gelsomini, scuro come le violette, azzurro come i nontiscordardime… ognuno era intrecciato con cura e si specchiava nello stagno come la coda di un aquilone. Ma mentre Florence guardava giù sull’acqua, vide comparire dietro la sua immagine quella di un grande ragazzone, dai folti capelli neri cadenti sugli occhi, col vestito a brandelli e la pelle scurita dal sole e dalla sporcizia: l’orco!
Tavola V di Gabriella Cavaliere per Le favole favolose
Emise un fortissimo urlo, forte, ma così forte, ma così forte… che nessun suono uscì dalla sua bocca! La paura l’aveva così sorpresa che la voce le era venuta a mancare. L’orco la guardò sorpreso, ancora tenendo fissi gli occhi nello stagno, e poi con uno strano sorriso, spalancò la bocca…. Florence si sentì sul punto di svenire e pensò che presto sarebbe finita mangiata, proprio come le avevano detto i cari fratelli sulle cui ginocchia non avrebbe più saltato… e invece… invece anche dalla bocca dell’orco, spalancata fino a mostrare grossi e sporchi denti, non uscì che un debole suono, poco più di un gracidare di rane o delle fusa di un gatto.
L’orco la guardò stringendosi nelle spalle, come a dire che era un gran guaio restare senza voce. Prese dalla sua caverna una vecchia tazza sbreccata e la riempì nello stagno per poi offrila a Florence, che ne bevve, nonostante non fosse troppo convinta in merito alle famose pulci e zecche. Ma, nulla, neanche dopo l’acqua, la voce di Florence ricomparve.
L’orco la salutò e Florence tornò di corsa verso casa, pensando a cosa dire alla sua famiglia. Ma niente ebbe da dire, se non cercare di spiegare, a gesti, che la sua voce era sparita.
“E quando?” Oggi.
“E dove?” Florence ebbe paura a rivelare che era andata nel bosco, e indicò lo stagno.
“E chi c’era?” Il gatto… Florence non si sentì di dire che aveva trovato il terribile orco: quel povero ragazzone era stato perfino gentile, e quanto lo capiva, ora che, sforzandosi di parlare senza riuscirci, era già rossa di rabbia!
La madre e il padre di Florence vegliarono tutta la notte per trovare una soluzione. La mattina il padre disse ai fratelli che quel giorno non avrebbero lavorato al mulino, sarebbero andati al limitare del bosco a tagliare rami freschi per adornare alla meglio il loro vecchio e malandato carro. La madre si mise a cucinare biscotti al burro, con l’aiuto di Florence, facendone di tutte le fogge e gusti, con dentro bacche e fragole di bosco, con miele e fiori e cannella. A mezzogiorno la madre e il padre caricarono il carro di cinque ceste di biscotti odorosi e, con la piccola Florence, si diressero al castello.
Andare al castello senza essere invitati era un’impresa impensabile per la povera gente come era la famiglia del mugnaio; ma i due genitori, raccontando a tutti coloro che incontravano il caso della loro povera figliola, e distribuendo i deliziosi biscotti del primo cesto, arrivarono finalmente oltre al ponte levatoio che immetteva nel cortile del castello. A una guardia armata di picca, e segnata da un gran pancione, regalarono una cesta intera e furono ammessi al cospetto del gran ciambellano. Il ciambellano era magro e schifiltoso, nulla soddisfaceva il suo palato e si nutriva solo di pesci di fiume. Ma l’odore dei biscotti incuriosì le sue narici e, dopo che ebbe ricevuto la terza cesta, ammise la famiglia al cospetto del re. Il re era un buon uomo, provato dagli anni e dalla perdita di molti figli, e si intenerì a sentire la storia di Florence, ma non sapeva proprio come aiutarli… Ma mentre mangiava i biscotti della quarta cesta, propose di sottoporre la bambina al grande mago. Costui era un uomo schivo e burbero, che non gradiva le chiacchiere. La bambina avrebbe dovuto andare da sola.
Così Florence si caricò in braccio la quinta e ultima cesta di biscotti e si avviò verso la torre in cui il mago faceva i suoi esperimenti e le sue invenzioni. Con mano tremante bussò alla una porta alta alta, ma nessuno rispose. Si guardò attorno e trovò una porta più piccola e stretta, e bussò un poco più forte, ma, di nuovo, non ebbe risposta. Scoraggiata, mentre stava per tornare indietro con gli occhi luccicanti di lacrime di stizza, vide una porta a mala pena della sua altezza e si mise a picchiare all’impazzata.
Subito la porta si aprì e la voce di un vecchio le ordinò di entrare. “Avanti!” Florence entrò nella porta piccola e si trovò in una sala buia piena di strani disegni, alambicchi, costruzioni di legno e perfino tre gatti, sei o sette galline e un furetto.
“Non ho posto per persone grandi e grosse che a mala pena si degnano di bussare alla mia porta. Non ho tempo per persone normali che bussano come a una porta qualsiasi. Ma se una piccola persona o un animale picchia così forte alla mia porta di certo dovrò fare qualcosa per lui”, disse il vecchio mago. Poi squadrò Florence e aggiunse “O per lei. Dimmi, bambina, come posso aiutarti?”
Florence lo guardò desolata, aprì la bocca e ne fece uscire un lieve soffio.
“Respiri male? L’aria circola male nei tuoi polmoni?” Florence scosse la testa e si toccò la gola.
“Soffri di mal di gola? Il fuoco brucia i tuoi organi?”. Florence si toccò la bocca e indicò all’interno.
“Hai problemi a mangiare? Il cibo che la terra ci dona non riesce a nutrirti?”. Florence stava iniziando a spazientirsi e cacciò un urlo di rabbia, dolore, tristezza e paura, e da quest’urlo non uscì nessun suono!
“Ah ho capito, la nera paura ti ha tolto la voce”. Florence annuì con impeto.
“Ah, nulla di grave. Devo solo sapere di cosa hai avuto paura”. Florence scosse la testa.
“Benedetta figliola: se hai avuto paura di un fulmine devo fare due dosi di mandragola e una di pece incendiaria, ma se hai avuto paura delle sabbie mobili devo aggiungere un terzo di sterco di pecora e una coda di lucertola! Devo saperlo!”. Florence, magra e ossuta, si atteggiò a gigante che pesta i piedi, afferrò il furetto e fece il gesto di infilarselo in bocca tutto intero.
“Ah, di un orco!” disse il vecchio mago. Ancora Florence annuì saltando di gioia: davvero questo vecchio era uno strambo, ma era uno strambo assai intelligente…
In meno di un’ora la pozione fu pronta, Florence bevve, ma… un minuto, due, tre… provò a schiarirsi la gola, ma la voce non face la sua ricomparsa.
“Mmm”, meditò il mago, “Mi manca qualcosa, qualche indizio fondamentale su questo orco. Dimmi, bambina, com’era questo orco?”.
Florence ci pensò su un po’, poi si avvicinò alla cesta dei biscotti e ne dette uno da mangiare al mago. Guardandola sospettoso il mago lo mangiò e disse:
“Buono!”. Florence saltellò di gioia: il mago l’aveva di nuovo capita!
“Un orco buono? Ah ma allora questo cambia tutto! Per la paura di un orco buono ci vuole anche… vediamo, vediamo, vediamo… brutto di fuori e buono di dentro, brutto di fuori e buono di dentro… un’ostrica!”.
E senza attendere un minuto uscì dalla porta (quella normale) e corse a precipizio fino al sale del trono; senza nemmeno fare la riverenza al re, guardò fra gli avanzi del banchetto, scosse la testa sconsolato davanti a fagiani e tacchini ripieni e corse ancora negli scantinati fino alle cucine, dove serve e macellai si aggiravano attorno a una grande stufa; e poi giù ancora, nella dispensa ghiacciata, dove finalmente trovò una cesta di ostriche fresche fatte arrivare dal mare per stuzzicare l’appetito della sempre mesta regina. I cuochi strabuzzarono gli occhi di fronte al mago, che mai era sceso nelle cucine e che chiedeva da mangiare solo frutta cruda, cicoria amara e bietole lesse. Poi, come se avesse vent’anni, il mago tornò fino alla sua torre e si rimise al lavoro tra alambicchi e calderoni.
E questa volta, la pozione, viscida e puzzolente, ebbe il suo effetto! Florence si ritrovò a parlare, e tanto e tanto e tanto! Saltò in braccio al mago come fosse stato il suo vecchio nonno e ci mise un po’ a ricomporsi e a fare le opportune riverenze.
“Benedetta fanciulla, ti preferivo quando non parlavi affatto!” sorrise il mago di nuovo burbero e svagato.
Ma Florence non poté trattenersi. “Non potrò mai ringraziarvi abbastanza, caro mago, per avermi ridato la voce. Ne terrò più da conto, e dirò solo quello che serve. Ma un altro favore devo chiedervi. Anche l’orco avrà perso la voce per paura. E voi signor mago potreste ridargliela, come avete fatto con me…”
“Cara, non sarà così facile. Gli orchi non salgono su un carro inghirlandato per recarsi al palazzo reale. E non sono tanto bravi a fare i biscotti. E nemmeno a mimare i loro sentimenti, che io sappia. Ma le sfide difficili mi piacciono. Tu trova l’orco e portami da lui”.
Florence salutò. Scese le scale, tornò nella sala del re e ringraziò i genitori con le parole più dolci che avessero mai sentito.
Quella notte Florence si girò e rigirò nel letto in cerca di un modo per trovare l’orco, ma soprattutto per convincerlo a prendere la pozione del mago. Non l’aveva mangiata, né rapita, né graffiata a morte solo perché anche lei era priva di voce, ma adesso la voce le era tornata… e se avesse finto di essere ancora muta dallo spavento, come avrebbe convinto l’orco che la pozione avrebbe funzionato? E poi, soprattutto, come fargli dire di cosa aveva avuto paura?
Quasi all’alba si addormentò sconsolata e senza una soluzione. Ma quando la mamma, per festeggiare la guarigione della figlia, la svegliò con ben sette nastri per capelli di colori diversi, Florence balzò dal letto, baciò la mamma, riempì un paniere di pane caldo, burro e biscotti, e sventolando i nastri corse fuori di casa. I genitori la guardarono pensando che tutto era tornato come prima, e si misero di buona lena a caricare la farina, pulire, lavare, e scrivere sul librone dei conti, senza guardare dove se ne andava la piccola.
Ma la piccola Florence corse verso il bosco e, raggiunta la caverna dove aveva incontrato l’orco, si mise con finta calma a intrecciare nastri al salice piangente. Al primo nastro, arancione come un tulipano, Florence non sentì nessun rumore; al secondo nastro, verde come l’edera, avvertì un lontano scricchiolare di rami, al terzo, blu come le mammole, si accorse che l’orco era spuntato da dietro un albero, e così, pian piano, continuando fino al settimo nastro, arrivò a guardarlo bene in faccia.
“Caro orco, la voce mi è tornata. Mi ha curato uno strambo mago, molto intelligente. Ha capito che era stata la paura a farla sparire, e io penso che potrebbe trovare una pozione anche per te. Devi solo farti vedere domani a quest’ora davanti a questo salice.”
L’orco scosse la testa, pestò i piedi, giro su se stesso e se ne andò. Florence si mise seduta ad aspettare. Aspettò e aspettò, fin quasi al tramonto, fino a che l’orco tornò, a testa china, guardando Florence con occhi un po’ tristi.
Florence provò a chiedergli: “Magari vuoi sapere cosa ci guadagni. Se domani vieni e accetti di farti curare dal mago, ti regalerò tutti i miei nastri”. L’orco allora alzò la testa sorridendo con i suoi denti sporchi e un po’ puzzolenti.
Florence corse ad avvertire il mago del castello, che passò la notte a riempire un carro coperto di pelle di pecora di tutti i possibili rimedi di erbe, pietre, ossa e squame animali di ogni tipo, dalle galline ai narvali, dalle tartarughe alle locuste.
Quando arrivò l’ora convenuta, il mago e Florence erano pronti e impazienti. Il giovane orco sbucò dal suo nascondiglio, facendo due passi avanti e uno indietro.
Il vecchio mago gli si avvicinò con fermezza, e gli chiese:
“Allora, benedetto figliolo, cosa c’è che non va?”.
L’orco pestò i piedi.
“Mmm, ti dolgono i piedi? Saranno forse i calli?”.
L’orco fece segno di no e si batté forte sul petto.
“Ho capito. Il sangue opprime il tuo cuore”.
L’orco scosse di nuovo la testa e si rannicchiò sulle ginocchia inarcando la schiena come un gatto arrabbiato.
“Qualcosa ha ferito la tua schiena?” L’orco lo guardò di sotto in su, annuendo con la testa.
“Alzati e fammi vedere la tua ferita. Sono troppo vecchio per chinarmi così in basso”. L’orco si alzò e mostrò una vecchia cicatrice.
“È una cicatrice molto vecchia. La ferita sarà avvenuta quando eri un bambino”. L’orco annuì con aria triste.
Il mago si fregò le mani e iniziò a girare in tondo.
“Per la schiena un guscio di tartaruga come calderone. Per la ferita otto sferze di salice, quattro spine di cardo e tre cuori di carciofo. Per l’amarezza, cerume di cane, e per il silenzio polvere di pelle di squalo.” Si mise all’opera dentro il suo carro, e lavoro per oltre tre ore, facendo sentire soltanto rumori di pentole e vampate di fuoco.
Poi il mago si accostò all’orco e gli bisbigliò all’orecchio:
“Ora devo solo sapere l’ultimo ingrediente. Se la ferita l’ha fatta una persona che ritenevi cattiva ci vuole sputo di serpe. Se l’ha fatta un persona che pensavi fosse buona ci vuole una fragola di bosco. Io metterò i due ingredienti nella tua caverna. Decidi tu quale aggiungere e bevi la pozione. Poi getta l’altro ingrediente nel fuoco. Io non voglio saperlo. Solo se sei onesto la pozione funzionerà”.
L’orco guardò incredulo il vecchio mago e i suoi occhi di velarono di una specie di pianto.
Il mago salì sul suo carro e si mise ad aspettare. Florence scalpitava come una puledra fuori dalla caverna. Si sentì il crepitare del fuoco e poco dopo l’orco tornò fuori.
“Grazie” disse, con la voce ancora roca e cercando parole che da tempo non usava più.
E fu così che tutti e tre uscirono dal bosco. Il mago accettò come ricompensa una cesta di biscotti ogni settimana che Florence gli portava nella torre passando dalla porta piccola, e accettò anche le chiacchiere della vivace bambina che non smetteva mai di toccare e chiedere notizie delle sue invenzioni. Florence trovò nell’orco un compagno per bagnarsi nello stagno e rincorrere le rane e, pian piano, anche i fratelli ci fecero amicizia, e lo invitarono a fare sfide di tiro alla corsa (in sei contro uno).
L’orco si rattoppò l’abito con i nastri colorati che Florence gli aveva regalato e così, più presentabile, visto che conosceva bene il bosco, le sue terre e le sue piante, trovò lavoro come garzone del mago, macinando i colori per le sue pitture e tagliando la legna per le sue macchine strambe.